Duvarci ustasi bir Italyanin oglu, Amerikali romanci, kisa hikaye yazari, senarist John Fante'nin olum yildonumu (8 Mayis 1983)
"Dislerinin beyazligini hesaba katmazsan cok guzel oldugu soylenemezdi. Ama o anda yasli musterilerden birine gulumsemisti ve dudaklarinin arasinda bir beyazlik belirip kaybolmustu. Burnunun delikleri genis. Dudaklari asiri rujlu ve siyahi bir kadinin dudaklari gibi dolgun. Irkinin tum ozelliklerini tasiyordu ve o sekilde degerledendirdiginizde harikuladeydi, ama fazla tuhafti benim icin. Gozleri hayli cekik, teni koyuydu, ama siyah degildi. Yurudugunde gogusleri diriliklerini belli eder sekilde sallaniyorlardi. Ilk isaretimi gormezden gelmisti. Bara gitti, suzgun barmene siparisi verip biralari doldurmasini bekledi. Beklerken islik caliyordu. Ben isaret etmekten vazgecmistim ama yanima gelmesini istedigimi de yeterince belli etmistim. Birden agzini tavana dogru kaldirip cok garip bir kahkaha atti, barmenin bile dikkatini cekmisti kahkahasi. Sonra masalarin arasindan dans eder gibi gecerek arka tarafta oturan bir gruba dogru gitti. Elindeki tepsiyi muthis bir zerafetle tasiyordu. Barmen de onu izliyordu, kahkahasina anlam verememisti hala. Ben vermistim ama. Benim icin atilmisti o kahkaha. Gorunumumde bir tuhaflik olmaliydi. Yuzumde, durusumda, orda oturuyor olmamda onu eglendiren bir sey vardi. Bunlari dusunurken yumruklarimi SIKMIS, asagilanmis olmanin ofkesi ile gorunumumu gozden geciriyordum. Sacimi elledim, taraliydi. Gomlegimin yakasini ve boyun bagimi kontrol ettim: yerli yerinde ve temizdiler. Kendimi barin aynasinda gorebilecek kadar one egildim. Gordugum yuz kesinlikle endiseli ve solgundu ama komik degildi. Cok kizmistim. Gozumu ona diktim, her hareketini izliyor, gozumu ustunden ayirmiyordum. Masama gelmedi. Yaklasti, bir keresinde komsu masaya geldi ama o kadar. Esmer yuzunu, alayci gulumseme dolu siyah gozlerini her gordugumde dudak bukup pis pis bakiyordum. Bir oyuna donustu. Kahve sogudu, buz gibi oldu, ustunde sut tabakasi olustu ama elimi bile surmedim. Masalar arasinda dans eder gibi yuruyor, yipranmis ayakkabilari mermerin ustunde kayarken guclu ipek bacaklarina talas bulasiyordu. Ust kismi deri orguden yapilmis Meksikali'lara ozgu cariklardan vardi ayaginda, deri orgu yer yer yipranmisti." Toza Sor
"A parte il contorno del viso e il candore dei denti, non erra bella. I denti li notai quando si voltò a sorridere a uno degli avventori, rivelando una striscia bianca tra le labbra dischiuse. Aveva il naso degli indios, piatto, con le narici larghe. Le labbra, spesse come quelle di una negra, erano cariche di rossetto. Apparteneva a un'altra razza, e forse ne era un esemplare pregevole, ma era troppo strana per me. Aveva gli occhi a mandorla, la carnagione scura, anche se non nera, e quando camminava i seni si muovevano rivelando la loro sodezza.Dopo quella prima occhiata, mi ignorò. Proseguì verso il bar, dove ordinò delle altre birre e aspettò che il barista, un tipo smilzo, riempisse i bicchieri. Nell'attesa si mise a fischiettare, lanciandomi un'occhiata distratta. Decisi di smetterla con i cenni, ma la guardai in modo tale da non lasciarle dubbi sul fatto che volevo che si avvicinasse. Improvvisamente gettò indietro la testa e scoppiò in una risata incomprensibile, che lasciò perplesso anche il barista. Poi si allontanò quasi danzando, facendo dondolare con grazia il vassoio, diretta verso un gruppo seduto all'estremità opposta del locale. Il barista la seguì con gli occhi, ancora stupito per il suo scoppio di risa. Ma io sapevo che cosa l'aveva provocato. Ero stato io. C'era qualcosa nel mio aspetto, forse il mio viso o il modo in cui me ne stavo lì seduto che l'aveva divertita e, al solo pensiero, strinsi i pugni e mi esaminai con irosa umiliazione. Mi toccai i capelli, erano pettinati. Passai le dita sul colletto e sulla cravatta, tutto a posto. Mi allungai fino a specchiarmi nello specchio che stava dietro il bancone, dove vidi riflessa la mia faccia, sicuramente pallida e preoccupata, ma non certo buffa, e mi adirai.Cominciai a sogghignare; la guardai attentamente e sogghignai. Ma lei non venne. Arrivava vicino, persino al tavolo accanto al mio, ma non si avventurava oltre. Ogni volta che vedevo il suo viso scuro e i grandi occhi neri che mandavano lampi di ilarità, piegavo le labbra in un sogghigno. Diventò un gioco. Il caffè si raffreddò, continuò a raffreddarsi, la panna si raggrumò in una specie dio schiuma sulla superficie, ma io non lo toccai. La ragazza si muoveva come se danzasse e le gambe lisce e forti sollevavano vortici di segatura ogni volta che le scarpe consunte scivolavano sul pavimento di marmo.Erano "huarachas", quelle scarpe, ed erano trattenute da lunghi lacci di cuoio attorno alle caviglie. Erano ridotte in uno stato pietoso, la fascetta era tutta sfilacciata."
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